1. ENTRIAMO IN TEMA: Il problema della
glossolalia riguarda specialmente i credenti evangelici del movimento
pentecostale e quello carismatico (o nei pentecostale), sorto dal primo. Anche
se è vero che questi due movimenti hanno molte caratteristiche che vanno al di
là della dottrina della glossolalia e della pratica di questo fenomeno, tutte le
altre loro dottrine e pratiche possono essere, in qualche modo, ricondotte a
questo punto.
Prima
definiamo la parola «glossolalia». Secondo il Dizionario Devoto-Oli della
lingua italiana, questa parola significa: «1. La coniazione, talvolta
patologica, d’associazioni sillabiche prive di senso. 2. La presunta facoltà di
pregare e lodare Dio in una lingua misteriosa, intesa solo dai primi cristiani
forniti carismaticamente del dono dell’interpretazione». Secondo l’etimologia
della parola, glossolalia significa «parlata in [altra] lingua» o il «parlare in
linguaggi». Secondo l’uso generale dei pentecostali, significa «la capacità di
parlare in lingue umane, mai studiate, o di parlare nel linguaggio mistico degli
angeli, per opera dello Spirito Santo».
Storicamente
sembra che questo fenomeno sia esistito attraverso i secoli, sia fuori che
dentro la chiesa cristiana. Alcuni carismatici, quando invitati a citare dei
personaggi religiosi che parlarono in lingue, nominano alcuni santi della chiesa
romana, come Patrizio, missionario in Irlanda, Francesco, Teresa d’Avila,
Francesco Xavier; e uno di loro aggiunge: «Probabilmente Martin Lutero, i
Quaccheri, i Valdesi e i primi Metodisti».
2. PENTECOSTALI E CARISMATICI: Per ciò che
riguarda i problemi che la chiesa affronta oggi, possiamo dividere coloro che
praticano la glossolalia in due gruppi: i pentecostali «classici» o «storici» e
i «neopentecostali» che sono spesso chiamati «carismatici».
2.1. IL
MOVIMENTO PENTECOSTALE STORICO: Esso è spesso fatto risalire a un
risveglio avvenuto in California (USA) nel 1903, in alcuni credenti che
desideravano una vita spirituale più profonda e che, mentre pregavano per
ottenere la pienezza dello Spirito Santo, fecero inaspettatamente l’esperienza
di formulare con la bocca degli strani suoni, che non facevano parte di nessuna
lingua a loro conosciuta. In seguito, crederono di capire che si trattava del
ripetersi del fenomeno della Pentecoste e continuarono a sviluppare la loro
esperienza, arrivando all’interpretazione delle loro strane lingue e alla
«riscoperta» della dottrina che spiegava la loro esperienza.
Quei credenti
scoprirono ben presto che le loro dottrine non erano condivise e approvate dagli
altri credenti delle loro comunità evangeliche e videro la necessità di formare
delle nuove comunità, in cui tutti praticavano la glossolalia. In seguito,
queste comunità s’unirono per formare diverse denominazioni pentecostali.
In generale,
queste nuove denominazioni condividevano gran parte del patrimonio dottrinale
delle altre chiese evangeliche: ▪ 1. la fede nella Bibbia come Parola ispirata
di Dio; ▪ 2. la Trinità e la divinità di Gesù Cristo; ▪ 3. la necessità della
nuova nascita per fede senza le opere (spesso essi credevano però che fosse
possibile perdere la salvezza); ▪ 4. la pratica del battesimo e della Santa
Cena; ▪ 5. la necessità di vivere una vita santa; ▪ 6. l’importanza e la pratica
dell’evangelizzazione.
Per ciò che
riguardata particolarmente la dottrina dello Spirito Santo, queste chiese
pentecostali credevano quanto segue: ▪ 1. lo Spirito Santo rigenera il credente
e abita in lui dal momento della conversione; ▪ 2. è necessaria per ogni
credente una «seconda opera» dello Spirito Santo, per mezzo della quale il
credente è santificato e «battezzato nello Spirito Santo»; ▪ 3. questo battesimo
è sempre accompagnato dalla glossolalia come segno che è avvenuto; ▪ 4.
la glossolalia può, e deve, essere esercitata sia nella preghiera privata che
nelle riunioni pubbliche.
Alcune
caratteristiche spesso attribuite alle chiese pentecostali sono le seguenti:
▪ 1. l’entusiasmo che spesso raggiunge l’emotività e perfino la perdita
dell’autocontrollo; ▪ 2. l’accento messo sulle esperienze carismatiche a
scapito dello studio e della conoscenza articolata della Bibbia; ▪ 3. una
tendenza a svilupparsi maggiormente fra le persone meno istruite e spesso con
pastori poco preparati biblicamente; ▪ 4. una generale instabilità, dovuta a una
relativa alta percentuale, che non continua nella fede dopo alcune esperienze
iniziali, e a scismi e scomuniche nel movimento stesso; ▪ 5. uno spirito
settario.
2.2. IL
MOVIMENTO «NEOPENTECOSTALE» O «CARISMATICO»: Esso è cominciato in modo
diverso, anche se ha delle somiglianze con quello dei pentecostali «classici».
Però il suo sviluppo è stato abbastanza diverso.
Anche questo
movimento è cominciato fra persone già credenti, spesso fra i membri o il clero
di chiese evangeliche fra le più formaliste, quali l’episcopale, la
presbiteriana e la luterana. Di solito, non derivava da esperienze emotive
sconvolgenti, ma da una ricerca ragionata d’una più profonda spiritualità.
Spesso queste persone, o le loro chiese, non professavano completamente la fede
evangelica ortodossa, ma avevano accettato delle dottrine e delle posizioni
critiche verso coloro che erano più conservatori dottrinalmente.
Ciò che ha
contraddistinto questi nuovi carismatici è proprio il fatto che, a causa delle
posizioni che avevano nelle loro chiese e denominazioni, decisero di restare in
seno a esse, anche se le loro esperienze carismatiche non erano condivise dagli
altri. Perciò, si può dire che oggi vi siano dei carismatici pienamente inseriti
in quasi tutte le chiese protestanti del mondo, come pure nella chiesa cattolica
romana.
Perciò, non è
possibile trovare una posizione dottrinale comune fra questi carismatici per ciò
che riguarda l’ispirazione della Bibbia, la salvezza, il battesimo, la Santa
Cena, eccetera. Sull’opera dello Spirito Santo, per ciò che riguarda la
glossolalia, però, non hanno particolari contrasti coi pentecostali «classici».
3. IL PROBLEMA: Ora, perché questa presentazione
si chiama «Il problema della glossolalia»? In quale senso è per noi un
problema. Primo, è un problema perché anche noi crediamo alla Bibbia, come i
pentecostali, e desideriamo vivere pienamente in sottomissione a essa o a tutto
ciò che Dio vuole fare nelle nostre vite. Perciò, se fosse vero che non abbiamo
sperimentato un’opera importante, che lo Spirito Santo dovrebbe fare in noi, e
se non l’abbiamo dimostrata con il suo supposto segno inconfondibile (la
glossolalia), e se il ministero nelle nostre chiese è privo d’uno o più doni che
Dio ha voluto darci per la nostra edificazione, allora noi abbiamo davvero un
grosso problema da risolvere.
Allora, il
nostro più grande problema è di essere sicuri che comprendiamo ciò che la Bibbia
insegna su questi argomenti e, in secondo luogo, che sappiamo in qualche modo
spiegarci cosa stia veramente succedendo e quali spiegazioni ci siano delle
esperienze che altri effettivamente fanno.
In seguito,
resteranno altri due problemi. Nel caso che, dopo il nostro studio, rimanessimo
più convinti che mai delle nostre posizioni, dovremo decidere come comportarci
néi confronti dei pentecostali «classici» e del nuovo movimento carismatico.
Il problema,
che è spesso sorto nei nostri contatti coi pentecostali classici, è che
il loro spirito settario e battagliero ha turbato noi e le nostre chiese. Essi
rivelano questo spirito nei seguenti modi: ▪ 1. attaccano direttamente chi non
condivide la loro credenza e la loro esperienza riguardo alle lingue; ▪ 2.
cercano di convincere altri credenti, già felicemente inseriti in altre chiese e
che hanno una vita morale o spirituale esemplari, che a loro manca qualcosa
d’essenziale (alle volte, arrivando anche a mettere in dubbio la loro salvezza);
▪ 3. con questi loro atteggiamenti chiudono ogni possibilità o desiderio di
collaborare con altri e ostacolano altri che sarebbero desiderosi di collaborare
con loro.
Riguardo ai
neopentecostali (o carismatici), invece, il problema sta nel capire come
possa essere possibile che siano veramente convertiti e ripieni dello Spirito
Santo, mentre professano dottrine, che noi riteniamo biblicamente false, e
spesso incoraggiano energicamente un’apertura ecumenica che noi riteniamo
antibiblica.
Per esempio,
mentre, da una parte, i carismatici cattolici dichiarano che la loro
esperienza di battesimo nello Spirito Santo gli ha dato una maggiore devozione
alla messa e alla Madonna, e una maggiore prontezza a sottomettersi alla
gerarchia della chiesa romana, dall’altra professano anche che il movimento
carismatico è voluto da Dio proprio per unire tutti i credenti e che porterà
alla chiesa universale.
Ora, sia i
pentecostali classici, sia i neo-pentecostali, ci portano a cercare la risposta
alle seguenti domande: ▪ 1. È vero che ogni credente deve cercare, dopo
la sua conversione, il battesimo nello Spirito Santo? ▪ 2. È vero che il segno
essenziale del battesimo nello Spirito Santo sia il parlare in lingue
sconosciute? ▪3. È vero che il «dono delle lingue» esiste ancora oggi? Se noi
possiamo, in base allo studio della Bibbia, rispondere di «no» a una di queste
domande, o anche a due o a tutte e tre, allora, dovremmo dire che il movimento
pentecostale è sbagliato nella sua comprensione e nel suo insegnamento della
Bibbia.
Però ciò
potrebbe fare sorgere altre domande: ▪ 4. Se non è necessario, o neanche
possibile, parlare in lingue oggi, come si spiega e giustifica ciò che è
successo e che è descritto nella Bibbia? ▪ 5. Come si spiega ciò che
effettivamente succede fra i carismatici? ▪ 6. Come dovremmo comportarci davanti
ai carismatici?
Nel resto di
questo studio vogliamo rispondere a queste domande in modo serio, alla presenza
di Dio, con la guida dello Spirito Santo e nell’attento ascolto della sua
Parola.
4. BATTESIMO DI SPIRITO DOPO LA CONVERSIONE?: È
vero che ogni credente deve cercare, dopo la sua conversione, il battesimo dello
(o nello) Spirito Santo? È chiaro che non è legittimo basare delle dottrine sul
silenzio della Bibbia. E su quest’argomento la Bibbia tace completamente. Mai è
detto che un credente dovrebbe «cercare» o «aspettare» il battesimo dello
Spirito Santo dopo la sua conversione. Mai è detto che qualche credente abbia
aspettato o cercato questo battesimo.
In Atti 1,4,
Gesù ordinò ai discepoli d’aspettare in Gerusalemme «il compimento della
promessa del Padre». Qual era la «promessa del Padre»? In Giovanni 14,16.26,
la risposta è: «la venuta dei Consolatore» cioè dello Spirito Santo.
Poi, in Atti
1,5, Gesù promise che fra non molti giorni sarebbero stati battezzati con lo
Spirito Santo. La realizzazione di questa promessa non era condizionata dal loro
aspettare, ma dalla realizzazione della promessa del Padre, cioè la discesa
dello Spirito Santo.
Prima che
fosse venuto (o disceso sulla terra) il Consolatore, era impossibile che i
discepoli e gli altri credenti fossero «battezzati» per mezzo di Lui. Ma ciò non
significa che ora i credenti debbano aspettare in Gerusalemme (o in
qualsiasi altro posto) la discesa dello Spirito Santo e il suo battesimo, perché
Egli è già venuto, una volta per sempre, per prendere il posto di Gesù e ora
abita nel cuore d’ogni credente e dimora nella chiesa.
Il motivo per
cui nessun credente deve aspettare, dopo la sua conversione, il battesimo nello
Spirito Santo è che ogni credente è già battezzato dallo Spirito Santo,
nel momento stesso della conversione, per entrare a fare parte del corpo di
Cristo (1 Corinzi 12,13). Alle volte, i pentecostali cercano di fare delle
distinzioni fra il battesimo «nello» Spirito, «con» lo Spirito o «dallo»
Spirito, ma queste distinzioni non hanno alcun senso, grammaticalmente nel greco
o in italiano, né teologicamente.
Perciò la
dottrina sostenuta dai pentecostali e neopentecostali, che il credente deve
aspettare e ricercare il battesimo dello Spirito Santo è una dottrina
falsa, basata su un’errata interpretazione d’alcuni passi biblici (anche se
questo non mette in dubbio la loro sincerità, la loro vera conversione o il loro
amore per la Parola di Dio).
5. BATTESIMO DI SPIRITO E GLOSSOLALIA: È vero che
il segno essenziale del battesimo nello Spirito Santo sia il parlare in lingue
sconosciute? Di nuovo, bisogna dire che non è giusto basare una dottrina su un
fatto, di cui la Bibbia tace. Mai la Bibbia afferma e mai un apostolo ha scritto
che la prova del battesimo dello Spirito Santo sia il parlare in lingue.
In Atti 2,4,
Luca mette in relazione diretta il fatto che i Dodici erano «ripieni» di Spirito
Santo (che neanche i pentecostali affermano sia sinonimo dell’essere battezzati
di Spirito Santo), col fatto che «cominciarono a parlare in altre lingue» (si
noti, però, che Atti 4,31 i credenti furono di nuovo «ripieni» di Spirito Santo
e non parlarono in lingue!).
In Atti 10,
nella casa di Cornelio, non è mai detto che i gentili che credettero fossero,
specificatamente battezzati di Spirito Santo. Essi però parlarono in lingue.
Luca dice che «lo Spirito Santo cadde su di loro», che «il dono dello
Spirito Santo» fu sparso e che «hanno ricevuto lo Spirito Santo». (È
anche interessante che quei convertiti non dovettero aspettare o ricercare
alcunché, ma solo ascoltare l’Evangelo e credere; dopo di che immediatamente
ricevettero il dono dello Spirito, e parlarono in lingue).
In Atti
11,15-17, Pietro spiegò ciò, che era avvenuto nella casa di Cornelio, come la
discesa dello Spirito Santo su di loro, come battesimo di Spirito Santo, come il
dono di Dio; e disse che tutto ciò era il risultato del fatto che avevano
creduto in Cristo e non dell’avere aspettata o ricercato una qualche esperienza.
La conclusione degli altri credenti, dopo il discorso di Pietro, non fu che il
parlare in lingue dimostrasse che i gentili avessero ricevuto il battesimo dello
Spirito Santo, ma che Dio aveva dato loro il dono di ravvedersi per ottenere la
vita (Atti 11,18).
Nel terzo, e
ultimo passo del Nuovo Testamento, in cui si legge del momento in cui qualcuno
parlò in lingue (Atti 19,4s), Paolo spiegò ad alcuni uomini la salvezza in
Cristo e questi furono battezzati in acqua, con l’imposizione delle mani da
parte di Paolo. In quel momento, lo Spirito Santo scese su loro e parlarono in
lingue, ma la Bibbia no dice che abbiano dovuto aspettare o ricercare il
battesimo dello Spirito Santo né che il battesimo dello Spirito Santo avesse a
che fare col loro parlare in lingue.
A Samaria,
invece, quando Pietro e Giovanni imposero le moni sui neoconvertiti samaritani,
è scritto che essi ricevettero lo Spirito Santo, ma non vi è alcun riferimento
che ciò fosse accompagnato dal parlare in lingue, come segno della sua discesa.
D’altra parte,
quando Filippo evangelizzò l’Etiope, questi credette e fu battezzato in acqua,
ma Luca non fa alcun riferimento a un dono o battesimo nello Spirito Santo, né
che l’Etiope parlasse in altre lingue. Ciò significherebbe che Filippo abbia
trascurato quest’importante insegnamento, o che questo credente non fosse
battezzato nel corpo ai Cristo? Insomma, l’insegnamento biblico non conferma in
alcun modo che il parlare in lingue sia in relazione con un avvenimento
specificatamente chiamato il battesimo dello Spirito Santo (cioè qualcosa di
diverso dalla discesa dello Spirito Santo su chi crede, e il dono dello Spirito
Santo al nuovo credente). Tanto meno la Bibbia dice, o lascia intendere, che il
parlare in lingue sia «il segno specifico e unico», che deve accompagnare il
battesimo nello Spirito Santo, né che il credente che non ha mai parlato in
lingue non sia perciò stato battezzato dallo Spirito Santo.
Se la Bibbia
non dice mai che il parlare in lingue sia il segno del battesimo dello Spirito
Santo, allora l’insegnamento generale dei pentecostali e dei neopentecostali,
secondo cui ogni credente ha bisogno, dopo la conversione, di ricevere il
battesimo dello Spirito Santo e deve, almeno quell’unica volta nella sua vita,
parlare in lingue come segno e conferma del battesimo, è una falsa dottrina.
Nella pratica, questa dottrina spinge molti credenti quasi alla disperazione,
credendo che Dio non li abbia accettati o che non siano degni del battesimo
dello Spirito, perché non riescono a parlare in lingue. Spinge molti altri anche
a fingere dì parlare in lingue, ripetendo suoni suggeriti loro da altri.
Permette, inoltre, ad alcuni che non hanno mai sperimentato la nuova nascita, di
credere d’essere a posto con Dio perché hanno pronunciato delle sillabe o frasi
incomprensibili.
6. GLOSSOLALIA ANCORA OGGI?: È vero che il dono
delle lingue esiste ancora oggi? Molti pentecostali fanno una distinzione: da
una parte ci sarebbe il palare in lingue, descritto in Atti 2, a Pentecoste, che
essi ritengono segno del battesimo dello Spirito Santo e necessario per ogni
credente; e dall’altra parte ci sarebbe il «dono delle lingue» nominato in 1
Corinzi 12,10.30 che sarebbe esercitato solo da pochi credenti che hanno
ricevuto questo, anziché qualche altro, dono da adoperare nella chiesa.
Altri credono
che i doni esercitati nella chiesa di Corinto, secondo 1 Corinzi 14 fossero
diversi da quello di Pentecoste, anche se tutti e due genuini e legittimi.
Perciò queste
differenze d’opinione ci propongono altre tre domande: ▪ 1. Quali doni di
lingue esistevano nella chiesa primitiva? ▪ 2. Qual era lo scopo di quei doni? ▪
3. Il compimento di tale scopo prevedeva la cessazione di quei doni dopo un
certo tempo (e, se mai, dopo quanto tempo?) o la loro continuazione per tutta la
vita della chiesa?
Il primo
riferimento al dono dello lingue si trova in Marco 16,17: «Parleranno in
lingue nuove». E questo fatto è elencato fra «i segni» che avrebbero
accompagnato l’annuncio dell’Evangelo. Qui non si fa alcun riferimento né al
battesimo dello Spirito Santo né a un ministero svolto per mezzo delle lingue,
ma unicamente a un «segno».
Le due parole
qui tradotte «nuove lingue» sono in greco glossais kainais e significano
precisamente «linguaggi nuovi» (nel senso di diversi da quelli normalmente
parlati e non «nuovi» nel senso di «mai esistiti prima»). Che questo segno sia
stato manifestato alla Pentecoste è ovvio a tutti, ma non è mai detto che esso
(o gli altri segni quali il bere del veleno senza soffrirne) dovessero
manifestarsi in tutti i tempi e in tutti i credenti, come segno del battesimo
dello Spirito Santo.
In Atti
2,1-33, abbiamo il passo più completo, più dettagliato e più chiaro sull’uso
delle lingue nuove nel Nuovo Testamento.
In questo
passo è ovvio che tutti i credenti, senza volerlo o cercarlo, parlarono in
linguaggi normali, conosciuti e usati correntemente in altri paesi, ma che erano
per loro «nuovi», perché mai parlati o studiati da loro prima. In questi
linguaggi, essi hanno glorificato Dio in modo che gli astanti li hanno potuti
capire, senza interpreti. Nel suo discorso successivo, Pietro spiegò che quel
fenomeno era in relazione con le profezie di Gioele, il quale parlò della venuta
dello Spirito Santo e dei sogni che Dio avrebbe dato agli uomini (vv. 18s). Egli
affermò che Cristo era stato confermato da Dio come suo Figlio, da segni o
prodigi (v. 22) e che, nel giorno della Pentecoste, il Cristo esaltato
confermava la discesa dello Spirito Santo con segni (v. 35).
Qui vediamo
precisamente manifestato uno dei «segni» che Cristo donò alla chiesa apostolica,
da compiere per mozzo di loro e per conformare il loro ministero. In Atti
4,30, la chiesa pregò che quei segni si manifestassero. È significativo che
gli unici casi successivi, in cui la Bibbia parla di casi veri dell’apparizione
di linguaggi nuovi, fu in presenza degli apostoli e per mezzo della loro
testimonianza. Sia nei casi di Cornelio e familiari (Atti io) e dei
discepoli di Giovanni (Atti 19), le persone che parlarono in linguaggi
«nuovi» furono chiaramente comprese nel loro dire, come alla Pentecoste.
Questo
ministero particolare della chiesa primitiva, confermato da segni, è nominato in
Ebrei 2,4 come qualcosa che apparteneva a coloro che avevano
personalmente udito e visto il Signore, e che era ormai passato. Questo
corrisponde a quella funzione precisa, e irripetibile, degli apostoli, d’essere
stati dei testimoni, particolarmente scelti da Dio (Atti 10,41s). Essi non
affidarono il loro messaggio e i loro poteri a una successione apostolica umana,
ma scrissero la loro testimonianza di testimoni oculari (vedi 2 Pietro 1,16.20s
e 1 Giovanni 1,1-4). Perciò, il credente oggi non ha bisogno di porre fede in
nuovi segni, ma unicamente nella Parola scritta di Dio, e non ha bisogno di
segni per confermare la sua fede, perché Io Spirito Santo comunica col suo
spirito (Romani 8,16) è la fede viene non dal vedere dei miracoli, ma
dall’ascolto della Parola di Dio (Romani 10,17).
In modo
particolare, Dio aveva promesso dei segni al suo popolo, agli Ebrei, come
Pietro ha ricordato riferendosi alle profezie di Gioele nel giorno della
Pentecoste. Infatti, essi cercavano questi segni come affermò Paolo ai Corinzi
(1 Corinzi 1,22: «I Giudei chiedono dei miracoli»).
Infatti, v’era
un segno particolare che Dio aveva indicato agli Ebrei come dimostrazione del
tempo del suo giudizio in seguito al rifiuto del suo popolo d’ascoltare la sua
voce. Questo segno era che il suo messaggio, respinto dagli Ebrei, quando
ascoltato nel loro proprio linguaggio, sarebbe stato loro ripetuto in altri
linguaggi.
A questo
fatto, Paolo fa riferimento in 1 Corinzi 14,21s, cioè nel famoso capitolo
sulle lingue. Egli dice che Dio aveva profetizzato al popolo (Isaia 28,11), che
nel futuro Egli avrebbe parlato loro con altre lingue, linguaggi stranieri, ed
Egli chiarisce perfettamente lo scopo di queste lingue nelle tre volte ricordate
negli Atti: «Pertanto le lingue servono
di segno non per i credenti, ma per i non credenti» (1 Corinzi
14,22). Dato che Paolo aveva citato, nel verso precedente, le profezie d’Isaia,
in cui Dio aveva detto che avrebbe parlato «a questo popolo» (cioè agli
Ebrei) con altre lingue, diventa chiaro che il segno miracoloso delle, lingue
serviva come ammonimento agli Ebrei che il loro Messia, promesso da Dio
da tanto tempo, era venuto, e che loro lo stavano rifiutando. Un tale messaggio,
provato da un tale segno, poteva servire unicamente agli Ebrei, a cui Isaia
aveva scritto la sua profezia, poiché essi formavano «questo popolo», a
cui Dio parlava. I pagani non conoscevano le profezie, infatti le profezie non
erano indirizzate a loro, perciò il segno delle lingue non poteva avere alcun
significato per loro.
Anche se il
ministero apostolico, che era stato principalmente indirizzato agli Ebrei, s’era
praticamente concluso dopo i primissimi anni a Gerusalemme e nella Palestina,
potevano ancora esistere dei gruppi di Ebrei nelle città dell’Impero romano a
cui l’annunzio del Messia non era arrivato e che perciò non lo avevano respinto.
Per questo motivo, Paolo, nell’elencare per i Corinzi gli autentici doni dello
Spirito Santo, nomina ancora quello, che probabilmente era già quasi estinto,
delle lingue e della loro interpretazione (vedi 1 Corinzi 12,10.30). In tutti e
due i casi, comunque, egli elenca questi doni alla fine della lista, come i meno
importanti. Difatti, negli Atti degli apostoli non è mai detto che questo dono
fu esercitato neanche una sola volta nelle chiese fondate da Paolo o nella sua
evangelizzazione. E non è nominato come esistente in alcuna epistola al di fuori
di quella ai Corinzi. È anche interessante che, nel capitolo 13, in cui parla di
tre doni che non sarebbero durati nella chiesa, adopera un verbo particolare
riguardo alla cessazione del dono delle lingue. Egli dice che i doni delle
profezie e della conoscenza verranno «aboliti» (in un momento preciso e per un
intervento esterno), ma «quanto alle lingue, esse cesseranno» (1 Corinzi
13,6). Questa affermazione conferma pienamente la provvisorietà del dono di
parlare in altri linguaggi come avvertimento agli Ebrei increduli, ma spiega
anche che questo dono sarebbe scomparso lentamente. Esso sarebbe sparito, via
via che gli Ebrei sarebbero stati messi di fronte alla venuta del Messia e che,
come popolo lo avrebbero rifiutato. Oggi non è più necessario che Dio avverta
gli Ebrei per mezzo del segno di lingue straniere, perché essi possono leggere
le Sacre Scritture e, sotto l’influenza dello Spirito Santo, convincersi di
peccato e accettare il Cristo, esattamente come il non credente d’origine
gentile o pagana.
7. APPROFONDIMENTI: Qui potrebbe finire questo
discorso se non fosse per alcuni fatti. Uno è che, attraverso i secoli, sia
nella chiesa sia in altre religioni, delle persone hanno professato dì parlare
con linguaggi stranieri, o per mezzo della potenza di Dio o d’altri spiriti. E
vi è anche il fatto che molti pentecostali professano di parlare in altre
lingue, che non sono lingue conosciute, ma lingue «spirituali» o «celesti» o
«angeliche».
Per prima
cosa, bisogna dire che la Bibbia non accenna mai minimamente che vi siano due
tipi di lingue donate da Dio miracolosamente, e cioè una lingua conosciuta, come
quelle della Pentecoste, e un’altra lingua misteriosa ed estatica, per altri
usi.
Esattamente
come non vi sono molte discese dello Spirito Santo, ma ve n’è una sola, avvenuta
al giorno della Pentecoste, e come non vi sono più battesimi dello Spirito
Santo, ma ve n’è uno solo, quello per cui ogni credente, al momento della
salvezza, è battezzato dallo Spirito Santo per far parte del corpo di Cristo,
così non vi sono nella Bibbia due o più tipi di lingue, con doni diversi,
manifestazioni diverse e scopi diversi.
Difatti, i
pentecostali e i neopentecostali (o carismatici) sono completamente fuori da
ogni fondamento biblico quando cercano di giustificare questi due tipi di lingue
o, per di più, affermano che, in base al racconto del giorno della Pentecoste,
ogni credente deve parlare in una lingua strana almeno una volta nella sua vita
e cioè quando è battezzato dallo Spirito Santo. E, poi, essi, nella pratica,
ammettono che il loro parlare in lingue in quel momento sia un parlare in un
linguaggio inintelligibile, mentre alla Pentecoste, come abbiamo visto, i
linguaggi parlati erano conosciuti e correnti. Siccome ciò che
effettivamente avviene fra di loro non è un parlare in una lingua intelligibile,
ma un pronunciare delle sillabe senza senso, essi hanno dovuto cercare un’altra
interpretazione delle loro lingue.
Il loro
attaccamento a un secondo tipo di lingue è basato non sul libro degli Atti, ma
su alcuni versetti della prima lettera di Paolo ai Corinzi. Secondo loro,
esisterebbe un linguaggio degli angeli, di cui Paolo parla in 1 Corinzi 13,1,
che servirebbe primariamente per l’uso privato e non per parlare agli uomini, ma
con Dio (1 Corinzi 14,2) o che potrebbe anche essere usato pubblicamente, quando
venisse immediatamente «interpretato», cosicché il messaggio contenuto nel
discorso in lingue verrebbe espresso in italiano (o nella lingua parlata
comunemente dai presenti).
Molti
pentecostali e neopentecostali (o carismatici), affermano d’essere capaci di
pregare in lingue ogni volta che lo desiderano e ciò è superiore al pregare
nella propria lingua, perché è sicuramente ascoltato da Dio, perché è offerto
per mezzo dello Spirito Santo, e perché esprime pensieri e bisogni che essi non
conoscono a livello conscio.
Dicono,
inoltre, che essi stessi sono fortificati spiritualmente — cioè edificati —
quando pregano «in lingue» e diventano più coraggiosi ed efficaci nella
testimonianza, più gioiosi, superano difficoltà, ricevono guarigione dei loro
mali, eccetera. Poi, dicono ancora che, nel parlare in lingue in pubblico, con
interpretazione, la chiesa è incoraggiata, e spesso sono ricevute delle nuove
rivelazioni riguardanti questa o quella persona o altri avvenimenti.
Ora, vediamo
se questo tipo di lingue, completamente diverse da quelle usate nel libro degli
Atti, effettivamente trovano la loro giustificazione nella prima lettera di
Paolo ai Corinzi.
Primo, nel
brano di 12,10.29, la parola usata per «lingue» e la stessa degli Atti, e
significa sempre «lingue o linguaggi parlati». La parola tradotta
«interpretazione» sarebbe resa più correttamente con «traduzione». In altre
parole, alcuni credenti avevano la possibilità di parlare correntemente in
lingue «nuove» (non la loro lingua materna) e altri credenti avevano la capacità
di tradurre da quella lingua nella lingua conosciuta dalla maggioranza, cioè
nella loro lingua materna.
Di solito, i
pentecostali spiegano anche come mai, nelle loro riunioni, le «interpretazioni»
di discorsi fatti «in lingue» non abbiano una chiara relazione di lunghezza con
l’originale. Essi dicono che non si tratta d’un traduzione vera e propria, ma
d’una interpretazione», cioè d’una spiegazione completamente libera del
contenuto (o del pensiero) dell’originale. Perciò, che essa sia più lunga o più
corta, non ha importanza.
Ma la parola
usata dall’apostolo Paolo non prevede questa libertà. Egli parla di traduzione,
che vuol dire riportare un discorso, più esattamente possibile, da un linguaggio
a un altro, senza tagli o aggiunte.
Non vi è,
nelle epistole, alcun preciso esempio dell’uso di questi doni elencati in 1
Corinzi 12, perciò ci domandiamo come lo Spirito Santo li adoperi praticamente.
In un caso — il più probabile — si potrebbe riferire a quel tipo d’avvertimento
miracoloso, che abbiamo già discusso e che Dio dava al popolo riguardo alla
venuta del Messia, come a Pentecoste, e limitato all’uso davanti a un pubblico
ebraico. Ma in 1 Corinzi, Dio avrebbe permesso (diversamente che negli Atti) che
il messaggio in lingua straniera fosse tradotto per chi non lo capiva.
La seconda
spiegazione potrebbe essere che questi «doni» di lingue e di interpretazione
siano il possesso e l’uso spirituale, donati da Dio, della capacità di parlare
in una seconda lingua, o d’interpretare, come accade oggi per missionari,
linguisti, traduttori al servizio di Dio. Anche gli altri doni e ministeri,
elencati in 1 Corinzi 12, potrebbero essere intesi nello stesso modo, come
ministeri di capacità normali, ma aumentati d’efficacia spirituale in modo
sovrannaturale.
Comunque sia,
non vi è alcun motivo per credere, che Paolo parli in 1 Corinzi 12, di lingue
incomprensibili o lingue angeliche.
In 1 Corinzi
13, Paolo comincia dicendo: «Quand’io parlassi le lingue degli uomini e degli
angeli...». Questo riferimento agli angeli ha spinto molti pentecostali a
spiegare ciò che succede in mezzo a loro, e che è altrimenti inspiegabile, come
il possesso del dono di parlare un linguaggio angelico.
In primo
luogo, la Bibbia non afferma che gli angeli parlino dei linguaggi diversi da
quelli degli uomini; perciò ogni interpretazione in questo senso è soltanto
fantasia. Ogni volta che la Bibbia parla dell’apparizione d’un angelo, questo
s’esprimeva in un linguaggio conosciuto. Perfino nell’Apocalisse, le parole o i
discorsi degli angeli sono sempre presentati in lingua normalmente umana, senza
alcun riferimento al fatto che ciò che è scritto sia una traduzione della lingua
angelica.
Poi, quando si
comincia a studiare seriamente il significato dei primi versetti del capitolo 13
di 1 Corinzi, salta all’occhio che Paolo sta usando addirittura due formo
grammaticali che bisogna tenere presenti: la forma ipotetica e la forma
iperbolica.
Se egli avesse
desiderato affermare che esiste una lingua parlata soltanto dagli angeli, e che
egli la parlava ,avrebbe potuto, e dovuto, scrivere: «Quand’io parlo le lingue
degli angeli....», e tutti avrebbero capito che egli, a volte, parlava
effettivamente quella strana lingua.
Ma quando egli
usa la forma ipotetica: «Quand’io parlassi...», egli non dice né che
parlava la lingua degli angeli né che tale lingua esisteva. Egli stava soltanto
formulando un caso ipotetico (che potrebbe o non potrebbe essere effettivamente
possibile realizzare) per rendere più chiaro il suo ragionamento. È come se io
dicessi: «Quand’anche io sapessi suonare il pianoforte…». Ci non indica che io
so suonare il pianoforte, anzi, dato che m’esprimo con la forma ipotetica e
dubitativa, è implicito che io non lo so suonare. Ecco, allora, il valore
della forma ipotetica. Essa non afferma niente. Lascia tutto in sospeso e
forma soltanto un’ipotesi.
Ma, Paolo,
oltre a usare la forma ipotetica e dubitativa, adopera anche un’altra forma
letteraria di discorso, e cioè la forma iperbolica, dal verso 1 fino al verso 3.
Per rafforzare il peso della sua argomentazione, egli afferma, o mette in
dubbio, cose che vanno al di là dell’effettiva realtà e che sono da comprendere
come effettivamente non realizzate
né, forse, realizzabili.
È come se —
invece di dire: «Quand’anche io sapessi suonare il pianoforte....» — io
affermassi: «Quand’anche sapessi volare come un uccello...». Detto così, diventa
evidente che sto mettendo là realtà a confronto con qualcosa che non è
possibile,.
Ora, nel
discorso di Paolo, è evidente che il suo ragionamento iperbolico esprime della
possibilità non esistenti nella realtà. Infatti, egli
non aveva affatto tutte le qualità
che elenca: egli non parlava (implicitamente tutte le lingue)
degli uomini, non conosceva tutti i misteri e tutta la scienza, non
aveva tutta la fede da trasportare i monti, non distribuiva tutte le sue
facoltà, non dava il suo corpo a essere arso. E non parlava
neanche un linguaggio degli angeli. Non diceva neanche che una tale
lingua esisteva. Non diceva che, se esistesse, qualche uomo l’avrebbe
potuta parlare.
In altre
parole, che i fratelli pentecostali prendano questo verso per provare che
esiste, un linguaggio degli angeli e che Paolo parlava tale lingua e che essi la
parlano ora, non è un’esegesi seria e spirituale della Bibbia.
Ora, il
capitolo fondamentale in cui si parla di «lingue» è 1 Corinzi 14 e,
quando avremo finito lo studio accurato di questo capitolo, avremo finito
praticamente di rispondere alle domande che ci siamo poste.
In primo
luogo, se il capitolo 14 fosse chiaro e facilmente comprensibile, non
esisterebbero differenze fra pentecostali e non-pentecostali, tutti e due
sinceramente desiderosi di conoscere la volontà di Dio e farla. Se tutto fosse
scritto in modo chiaro, con dichiarazioni positive e senza l’uso di varie forme
stilistiche grammaticali, tutti lo comprenderemmo alla prima lettura, e tutti
saremmo pentecostali o non-pentecostali, senza alcuna divergenza. Ma, in questo
capitolo, vi sono delle frasi che servono sia all’una come all’altra posizione.
Quando Paolo
dice che chi parla in lingue parla con Dio, che egli parlava in lingue più di
tutti i Corinzi, che egli desiderava che tutti parlassero in lingue, sembrerebbe
chiaro che tutti dovremmo diventare pentecostali.
Quando egli
dice, al contrario, che tutte le lingue, e perfino gli strumenti, esistono per
farsi capire e non per nascondere il proprio significato; che egli preferiva
cantare e pregare non in lingue (cioè con lo spirito, ma senza l’intelligenza);
che nella chiesa preferiva dire cinque parole comprensibili anziché 10.000
incomprensibili, sembra che stia dalla parte dei non-pentecostali.
Come bisogna,
allora, capire questi ragionamenti di Paolo? È possibile trovare una chiave che
metta tutte queste frasi in accordo fra loro? Prima di tutto, bisogna
allontanarsi un momento dagli alberi per poter vedere la foresta, cioè
distogliere lo sguardo dai particolari per vedere il tutto. Come notate sopra,
Paolo è maestro dello stile nello scrivere, per variare e per esprimersi con più
forza. Ma ciò richiede che i lettori siano sulla «stessa lunghezza d’onda» e
comprendano, quando fa una domanda, quale sia la risposta implicita, anche se
non è data esplicitamente Alle volte, Paolo è capace perfino d’usare
dell’ironia, affermando come vero ciò che gli altri credono, per fare capire che
egli non è affatto d’accordo. Per esempio, in 1 Corinzi 4,8, egli scrive: «Già
siete saziati, già siete arricchiti, senza di noi siete giunti a regnare». E
poi, sgonfia questa loro pretesa, aggiungendo ancora ironicamente: «E fosse
pure che voi foste giunti a regnare, affinché anche noi potessimo regnare con
voi!».
Allora, non ci
sorprendiamo se troviamo nel capitolo 14 delle frasi, delle affermazioni, delle
domande, dei confronti, che potrebbero sembrare paradossali o perfino in
contraddizione fra loro.
Un’altra
importante considerazione interpretativa di questo capitolo è che esso presenta
un costante contrasto fra il dono della profezia e il dono delle lingue.
Nel verso 1,
esorta di procacciare principalmente il dono della profezia. Nel v. 3 dice che
questo dono edifica, esorta, consola. Nel v. 4, dice che essa edifica la chiesa.
Nel v. 5 dice che preferisce per tutti il dono della profezia, perché è il dono
maggiore e chi lo usa è superiore a chi usa un altro dono. Nel v. 19 dice che
cinque parole dette per istruire (come nella profezia), sono preferibili a
10.000 inintelligibili. Nel v. 22 dice che la profezia serve ai credenti. Nei
vv. 24-25 dice che essa serve anche ai non credenti.
Vediamo,
invece, ciò che dice riguardo a chi parla in «altra lingua». Nel v. 2 dice che
non parla agli uomini, che nessuno l’intende. Nel v. 4 fa capire che essa non
edifica la chiesa. Nel v. 9 dice che chi lo fa «parla in aria». Nei vv. 14-15
dice che l’intelligenza rimane infruttuosa. Nel v. 20 fa capire che il loro
comportamento è infantile. Nel v. 26 dice che tutto deve essere fatto, nella
chiesa, per l’edificazione.
Le frasi in
cui, invece, l’apostolo parla delle lingue in maniera che sembra positivo sono
le seguenti: nel v. 5, egli dice: «Ben vorrei che tutti parlaste in altre
lingue». Nel v. 18, egli dice che egli parla «in altre lingue» più di tutti
loro. Nel v. 39, egli dice di non impedire di parlare in altre lingue.
Ora, un fatto
interessante e, forse di grande importanza è questo: in tutte le frasi citate
qui sopra, in cui l’apostolo parla in modo di considerare poco importante o
inutile ciò che i Corinzi facevano, egli parla di «altra lingua» al singolare.
Nei passi qui citati, in cui parla positivamente, Paolo parla invece, di «altre
lingue», al plurale.
Il dott.
Spiros Zodhiates, uno studioso della lingua greca, sia antica che moderna, e
autore di diversi libri d’analisi esegetica dei testi biblici, ha scritto:
«Quando Paolo accenna all’usanza dei Corinzi di parlare in lingua, egli si
riferisce a suoni inintelligibili non traducibili in forme linguistiche, che
avevano origine nello spirito e nelle emozioni dei Corinzi stessi. Quando Paolo
si riferisce a questo, egli di solito adopera il numero singolare: “parlare in
lingua!”. La parola aggiunta dai traduttori, “altra”, che induce alcuni a
credere che Paolo parlasse di un’altra lingua diversa dà quella materna, non
esiste nel testo greco». Zodhiates aggiunge che si trattava di «una lingua
sconosciuta agli uomini, non umana, incomprensibile, una lingua inventata che a
ragione non poteva essere considerata una lingua».
Riguardo alla
parola al plurale, Zodhiates scrive: «Quando Paolo parla della sua capacità di
parlare in altre lingue, egli non si riferisce a suoni incomprensibili ma
a lingue correnti, impiegate per fare conoscere la grazia di Dio agli uomini.
Dobbiamo concludere che quando vuol riferirsi a lingue intellegibili, Paolo usa
la forma al plurale, “lingue” e non “lingua”».
Paolo dice che
quando i Corinzi parlano «in lingua», la loro intelligenza rimane infruttuosa.
Ma mai la Bibbia insegna che Dio richieda una adorazione o delle preghiere
separate dalla nostra intelligenza, o che lo Spirito Santo ci porti a stati
d’incoscienza. questa era una credenza dei profeti, o indovini, pagani. Ed è
proprio per questo motivo che Paolo afferma in modo categorico che egli non
canterebbe o pregherebbe mai «in lingua» (v. 15) ma sceglie d’adorare Dio con la
spirito e con l’intelligenza.
In tutto il
capitolo 14, non è mai nominato lo Spirito Santo, anzi il parlare «in lingua» è
attribuito allo spirito dell’uomo stesso. A questo riguardo, Zodhiates scrive:
«Paolo parla non dello Spirito Santo ma dello spirito dell’uomo, cioè della
natura psicologica ed emotiva umana. Ciò che troviamo qui è lo spirito dell’uomo
che usurpa l’opera dello Spirito di Dio nella vita del credente».
Questi
Corinzi, quando parlavano in lingua, non capivano se stessi né altri potevano
capirli. Perciò Paolo dice (chissà se ironicamente) che parlavano soltanto con
Dio. Egli dice che lo scopo del parlare, del linguaggio, è sempre quello di
farsi capire, ma che il parlare senza questo scopo è un nonsenso.
Se ciò che
essi facevano era unicamente proferire dei suoni inintelligibili, era possibile
«tradurli» in una lingua conosciuta? Ovviamente no. Perciò Paolo ha messo questo
freno; se non vi è chi interpreta, che restino zitti.
Allo stesso
modo, egli intendeva far smettere queste scene basate sulla carnalità, dicendo
che tutto doveva essere fatto per l’edificare, avendo già specificato che
quel parlare «in lingua» non edificava né il credente (v. 22) né i non credenti
(v. 23). Se al contrario, vi è chi ha la possibilità di parlare «in lingue»,
cioè in una lingua vera ma conosciuta, e v’era chi poteva fare da interprete,
allora ciò poteva servire ai non credenti ebrei, come segno.
Egli dice — o
anche questa forse è dell’ironia — ché chi parla in «lingua» dovrebbe pregare
anche d’interpretare. Ma, non sarebbe un ragionare da bambini (vietato in v. 20)
pensare che Dio voglia dare il suo messaggio alla chiesa tramite il giro strano
d’una persona che conosce la lingua locale e parla ad altri, che la conoscono,
ma che prima riceve un messaggio miracolosamente «in lingua» (che egli non
capisce e i presenti non capiscono), e poi altrettanto miracolosamente, traduca
il suo proprio messaggio in lingua locale, quando Dio avrebbe potuto dare il
messaggio direttamente nella lingua del popolo?
Qualcuno
potrebbe giustamente domandarsi: Perché Paolo ha scritto un capitolo, che si
presta a degli equivoci nella comprensione, se avrebbe potuto fare dello
affermazioni e dare delle regole molto chiare? In primo luogo, è probabile che
il suo discorso, proprio basandosi su questa differenza fra la parola «in
lingua», al singolare, e «in lingue» al plurale, fosse molto più chiaro ai
Corinzi quando l’hanno ricevuto che non a noi, dopo duemila anni. In secondo
luogo, Paolo aveva avuto già tanti motivi per sgridare e correggere i Corinzi in
questa sua lettera. Può darsi che egli vedesse in questo loro fanciullesco e
carnale desiderio del dono delle lingue, per mettersi in mostra, una cosa da
correggere e da fermare, ma, allo stesso tempo, un’indicazione, d’un sincero
desiderio di servire Dio, di ricevere e d’usare i suoi autentici doni. Perciò,
senza urtare duramente, egli ha chiarito il problema, lasciando ancora a loro di
sperimentare nella pratica la soluzione da lui tracciata.
Allora, per
concludere risponderemo a questa domanda: A cosa serviva il «dono delle lingue»
nella chiesa primitiva? Serviva, secondo l’antica profezia d’Isaia, ad avvertire
gli Ebrei della venuta del Messia e del giudizio divino su chi non lo ascoltava.
Questo
ministero è finito? Sì, come annunziato da Paolo, le lingue sono cessate e
non esiste nella nostra epoca né il bisogno né la possibilità che questo donò
sia ripetuto. Qualcuno può domandare: Dio non può fare tutto? Certo, Egli può
fare tutto, meno che smentire la sua Parola o trasgredire i suoi stessi
piani. L’annunzio del Regno ai Giudei, perché potessero accettare o rifiutare il
regno del Messia, è finito e Dio non può e non vuole (secondo la sua
rivelazione) cambiare questo piano. Ora Egli non offre il Regno a Israele, ma il
Salvatore ai peccatori, e quest’annunzio non dipende dal «segno» delle lingue
straniere, ma dalla fedele predicazione della Parola di Dio.
8. ASPETTI CONCLUSIVI: A questo punto siamo
arrivati alle seguenti conclusioni.
■ 1. La lingua
«angelica», che era soltanto un fare rumori inintelligibili, non è mai stata
approvata da Dio, e perciò non ha alcun senso neanche oggi.
■ 2. Il
parlare miracolosamente «in lingue» vere ma non imparate, come segno per gli
Ebrei, è lentamente cessato nel primo secolo e non ha più alcun motivo
d’esistere e, difatti, non esiste.
Perciò, molti
ci domandano stupefatti: Allora come si spiega che tutti i pentecostali parlano
ancora in lingue? E come si spiega che, tante volte, ne traggono anche dei
risultati positivi, quali una gioia e un coraggio altrimenti assenti?
La prima cosa
da dire è che, avendo la certezza che «le lingue» della Bibbia non esistono più
e che non dobbiamo né cercare, né permettere nelle nostre chiese niente che
pretende d’essere la ripetizione di questi doni, per noi il problema è chiuso.
Se alcuni pochi o tanti non importa, ancora credono di parlare in lingue, resta
a loro spiegare come mai lo fanno quando la Bibbia non lo giustifica. E resta a
loro anche di cercare di capire cosa stia succedendo in mezzo a loro, o da dove
provenga una volta convinti che non è da Dio.
Ma, d’altra
parte, forse abbiamo il dovere d’offrire una risposta senza pretendere che essa
sia condivisa dai fratelli pentecostali.
In primo
luogo, se effettivamente esisteva, a Corinto, fra i credenti sinceri ma
sbagliati, un «parlare» che non era affatto parlare un linguaggio vero, ma
solamente un insieme di suoni, provocato dal desiderio di farlo, o d’imitare
altri, o d’andare oltre i limiti della conoscenza umana, possiamo credere
senz’altro che Io stesso fenomeno possa esistere oggi, e che probabilmente
esistano molti casi, in cui dei sinceri credenti sono convinti, erroneamente, di
parlare per lo Spirito Santo, quando parlano con il proprio spirito umano.
Che ciò sia
possibile non è affatto sconosciuto neanche agli psicologi; che dei
bambini o delle persone in alcune condizioni mentali parlino in un «linguaggio
inventato» è possibile. Anzi, è probabile che chiunque lo possa fare, se ripete
le stesse condizioni esistenti nelle normali riunioni pentecostali, e cioè: ▪ 1.
Una forte carica emotiva che può spingere oltre la ragione. ▪ 2. Un desiderio di
fare ciò che altre persone rispettate fanno già, e che si è più volte sentito
fare. ▪ 3. Una ricerca cosciente di svuotare la mente e di lasciare
incontrollate la lingua e le corde vocali. ▪ 1. La ripetizione meccanica di
sillabe o di parole.
Una volta
provata l’esperienza, può essere ripetuta anche senza stare necessariamente in
mezzo a una riunione emotiva o senza ripetere coscientemente sillabe o parole
per caricarsi.
E gli
effetti positivi? Non vi è dubbio che siamo tutti fortemente condizionati e
inibiti dalle persone e dalle circostanze e che abbiamo imparato a reprimere le
nostre emozioni e le nostre reazioni, per paura, per timidezza, per abitudine.
Qualsiasi esperienza «liberatrice», in cui siamo incoraggiati a lasciarci andare
e siamo capaci di farlo o piangendo o ridendo o gridando (e alcune «cure»
psicologiche si basano su questo metodo), ci fa sentire molto bene. Vedere un
film che fa ridere o piangere, seguire una partita, in cui perdiamo un po’ il
contegno e ridiamo da matti, ha delle conseguenze benefiche e ci fa sentire
meglio psicologicamente e anche fisicamente.
Se un credente
fa quest’esperienza non guardando un film o una partita, ma mentre partecipa a
una riunione cristiana, in cui pensa a Dio e all’opera di Cristo, in cui canta e
loda il Signore, allora «uscire dal guscio» o «rompere gli argini» potrebbe
aumentare di molto lo stato di benessere (perfino la salute) e dare, più
coraggio nella testimonianza, eccetera.
Allo stesso
tempo, bisogna dire che se una «uscita» abbastanza delimitata dal comportamento
normale può essere positiva per alcuni, l’andare oltre diventa sempre
pericoloso. Le riunioni pentecostali, in cui la gente si lascia andare fino a
entrare in «trance», a cascare per terra, ad avere tremiti, eccetera, sono un
pericolo per la psiche e per il fisico. Infatti spesso portano in seguito gli
individui a cadere in periodi di depressione. E il pericolo è tanto più grande,
se le emozioni sono giustificate come manifestazioni della potenza di Dio.
D’altra parte,
diciamo subito che, per rompere gli argini della nostra timidezza, della paura o
dell’abitudine non è affatto necessario avere un esperienza pentecostale o
«parlare in lingue». Ogni credènte, via via che cresce spiritualmente e si
lascia guidare e controllare dallo Spirito Santo, sperimenta la stessa
«liberazione» in modo più sano e duraturo.
Purtroppo non
possiamo fermarci qui per spiegare tutte le esperienze, in cui delle persone
credono di parlare in lingue sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Non
bisogna dimenticare neppure che gli stregoni pagani parlano spesso in lingua
strana. La stesso accade fra seguaci d’altre religioni o di sette, come ad
esempio i Mormoni. Queste persone parlano delle lingue, che possono essere o
semplicemente dei suoni inventati, o addirittura delle lingue, umane che essi
non hanno studiate. Sono noti, dalle testimonianze di diversi missionari, dei
casi in cui persone conosciute come credenti, hanno parlato, come credevano,
sotto l’influenza dello Spirito Santo e qualcuno presente ha potuto capire ciò
che dicevano, perché parlavano nella loro lingua nativa, e proferivano bestemmie
e oscenità.
Anche il libro
di Ralph Shallis sulle lingue elenca una decina di casi, in cui dei credenti
erano convinti di parlare in «lingue spirituali», ma che, quando la loro
esperienza è stata esaminata in profondità da altri credenti dotati di
discernimento degli spiriti, sono stati liberati da influenze demoniache e hanno
anche perso il «dono» delle lingue.
Ma qualcuno
dirà che chi parla in lingue, loda Gesù. Qui possono dire due cose. Una è che
nel caso della ragazza indemoniata che seguiva l’apostolo Paolo a Filippi,
questa appunto lo seguiva e testimoniava positivamente. Ciononostante,
Paolo non glielo permise e sgridò lo spirito. Lo stesso è successo più volte nel
ministero di Gesù. La seconda cosa nei casi citati dallo Shallis, spesso lo
spirito immondo lodava e professava un «altro Gesù», ingannando così il
credente.
Perciò, noi
ripetiamo che la Bibbia insegna quanto segue.
■ 1. Parlare
in un linguaggio fatto di suoni inintelligibili…: ▪ non edifica nessuno;
▪ è infantile; ▪ significa agire senza la propria intelligenza; ▪ non è un dono
di Dio; ▪ può portare a delle emozioni «positive» psicologicamente, ma non
spiritualmente; ▪ non può essere «tradotto» in lingua conosciuta e perciò è
vietato nella chiesa; ▪ può inconsciamente aprire il credente a influenze
demoniache.
■ 2. Parlare
in linguaggi umani e correnti, ma mai imparati…: ▪ serviva unicamente di
«segno» al popolo ebraico che possedeva le antiche profezie e perciò poteva
intelligentemente interpretare il significato del segno; ▪ è cessato, come dono
spirituale, nel primo secolo della chiesa; ▪ è ancora praticato in alcune sette
e da stregoni, sotto influenza satanica; ▪ deve essere vietato nella chiesa.
9. ATTEGGIAMENTO VERSO I SOSTENITORI DELLA GLOSSOLALIA:
Arrivati a questo punto, ci rimangono due problemi: ▪ 1. Quali devono
essere i nostri atteggiamenti verso i nostri fratelli pentecostali «classici» o
«storici»? ▪ 2. Quali devono essere i nostri atteggiamenti verso i
«neopentecostali» (o carismatici)?
Primo, fra i
pentecostali classici, dove è predicato fedelmente l’Evangelo di Dio (e
ciò non è sempre il caso), noi troveremo dei fratelli cari con cui godere una
bellissima comunione, come pure ne troveremo anche altri difficili, incoerenti,
eccetera, esattamente come troviamo dei credenti più o meno fedeli in tutte le
chiese evangeliche.
In generale,
secondo le possibilità, è di benedizione godere della comunione fraterna con
questi fratelli, intrattenerci con loro, pregando con loro, eccetera,
particolarmente su un piano personale.
Purtroppo, a
livello di comunione fra chiese e di collaborazione, è la nostra conclusione che
sia noi che loro vivremo più tranquilli, in pace e in amore, se non
cercheremo la collaborazione a livello di chiese o d’altre organizzazioni.
Spesso le loro convinzioni, a cui tengono così sinceramente e ardentemente e che
ovviamente essi hanno tutto il diritto di propagandare liberamente, diventano
motivo di discussione inutile e dannosa, quando i credenti delle comunità sono
messi insieme. Così, anziché rispettarsi e pregare gli uni per gli altri, spesso
si creano incomprensioni e ferite. La Bibbia afferma: «Possono due uomini
camminare insieme, se prima non si sono accordati?» (Am 3,3). Anche fra
sinceri e veri fratelli, alle volte la coabitazione non è consigliabile. Paolo e
Sila partirono nel secondo viaggio missionario, e Barnaba andò da un’altra
parte. Era una separazione triste? Sì. Era comunque una soluzione migliore della
collaborazione fra due che non la vedevano nello stesso modo? Anche a questa
domanda la risposta è «sì».
Verso i
neopentecostali (o carismatici), la nostra posizione deve essere diversa.
Come ho detto al principio, spesso queste persone, che professano il battesimo
nello Spirito, e anche parlano della nuova nascita, allo stesso tempo professano
dottrine antibibliche e lavorano coscientemente per raggiungere fra cosiddetti
cristiani un’unità che non è affatto biblica. Anzi, a nostro parere, una tale
unione non può che portare alla chiesa apostata ed è possibile e probabile che
molte persone ignare e sincere contribuiranno alla formazione del regno
dell’Anticristo.
Siccome, in
generale, fra i neopentecostali vi è poca chiarezza sullo dottrine della
divinità di Cristo e sull’ispirazione e l’autorità della Parola di Dio (se non a
parole, certo nei fatti), vi sono due grossi pericoli dottrinali.
Un errore è
centrare l’insegnamento e la pratica sullo Spirito Santo e non su Cristo,
cosicché si prega lo Spirito Santo, si cantano inni di lodi allo Spirito Santo,
si cerca la presenza dello Spirito Santo in modo che la Trinità viene, di fatto,
negata. (Un po’ come i cattolici professano, normalmente, una dottrina ortodossa
sulla Trinità, ma poi innalzano Maria e i santi fino al punto di diminuire
l’importanza di Cristo).
Il secondo
grande errore è che, centrando spesso la propria vita spirituale sullo Spirito
Santo, come è manifestato attraverso i doni delle lingue e dell’interpretazione,
il frutto di questi doni viene accettato come nuova rivelazione e, in pratica,
sostituisce la Parola di Dio come base della fede. Di nuovo, il paragone con la
chiesa cattolica e la sua posizione sulla Tradizione è molto simile: Si dice di
credere pienamente sia nella Bibbia che nella Tradizione, ma la Tradizione
finisce per condizionare e sostituire la Bibbia. Fra i neopentecostali, la
stessa cosa avviene per mezzo dei cosiddetti doni carismatici.
Perciò,
secondo la Bibbia, chi professa la falsa dottrina o ha un cammino non conforme
alla Parola di Dio, deve essere ripreso quando ciò è possibile, e schivato
quando rifiuta la riprensione. Non è giusto avere alcuna collaborazione o
comunione con le opere di Satana, anche quando esse sono promosse da persone
gentili, educate, pieno di buone intenzioni e che usano, in parte, il nostro
stesso vocabolario.
Proprio perché
i fautori del movimento carismatico, sia dalla sponda protestante che da quella
cattolica, professano che esso sia un mezzo per promuovere l’ecumenismo, noi
crediamo che, al di là delle persone sincere o meno che sono coinvolte, noi
dobbiamo considerarlo uno dei tanti mezzi satanici per ingannare gli eletti
stessi e per unirli nel regno di Satana.
E cosa fare se
la glossolalia, o qualche sua influenza, comincia a entrare nelle nostre
comunità? Penso che dobbiamo affrontarla e opporci a essa apertamente e
rapidamente.
Questo
movimento non è partito dallo studio della Bibbia, ma dalle esperienze e, in un
modo pericoloso che molti carismatici non vedono, porta in sé sempre il seme del
pericolo di dare più importanza alle rivelazioni, ai doni, allo lingue, alle
esperienze che non all’autorità assoluta della Parola di Dio.
In secondo
luogo, il metodo usato normalmente per provocare la venuta del cosiddetto
battesimo dello Spirito Santo, svuotando la mente d’altri pensieri e ripetendo
meccanicamente delle frasi pie, potrebbe aprire le persone (e crediamo che abbia
aperto molti) a influenze negative psicologicamente e perfino spiritiche.
Il dono, come
praticato (e perfino come visto nella prima epistola ai Corinzi) non ha alcuna
relazione positiva con la condizione spirituale del credente e con la sua
crescita.
Altre volte, e
troppo spesso, il ricercare questo cosiddetto dono provoca una pericolosa
preoccupazione interiore o porta alla depressione e all’instabilità.
Altre volte, è
motivo di posizioni d’orgoglio, opportunamente mascherate da spiritualità, e
perciò provoca divisioni e giudizi non spirituali fra credenti. Inganna il
credente stesso facendogli credere d’essere forte quando è maggiormente esposto
alle cadute.
Personalmente,
troviamo umanamente difficile prendere una posizione chiara, esplicita contro
questo movimento, in cui sono inclusi molti cari fratelli.
Quando essi, a
confronto con le nostre chiare esposizioni bibliche, propongono le loro
esperienze, che non sono affatto pronti ad abbandonare, forse ci sentiamo
imbarazzati e pronti ad ammettere che potrebbero avere ragione, anche se noi
siamo d’avviso diverso.
In fondo, si
finisce col dire che forse hanno ragione, forse no, proprio per non correre il
rischio di litigare.
Questa è una
posizione di debolezza che tradisce il nostro dovere di studiare e insegnare la
Bibbia ai credenti che Dio ha affidati alla nostra cura. I pentecostali non
hanno alcuna paura o timidezza nell’affermare il loro punto di vista. Noi
dobbiamo dire, con altrettanta fermezza, chiarezza e amore il nostro.
■ Fonte: Tom Jones - Giovambattista Mele, Il problema
della glossolalia (dattiloscritto; anno e luogo sconosciuti). Usato
con permesso da parte di Giovambattista Mele.
■ Testo ripreso, elaborato, ristrutturato e adattato da Nicola
Martella; © Punto°A°Croce 2009.
■
Letteratura per l'approfondimento:
Nicola Martella,
«Glossolalia
allo specchio»,
Carismosofia
(Punto°A°Croce, Roma 1995), pp. 69-83; cfr. qui anche «Il battesimo dello
Spirito», pp. 35-41.
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►
Glossolalia e demonizzazione?
{Nicola Martella} (D)
►
Glossolalia, lingue ed engramma psichico
{A. Capasso - G. Nunnari - N. Martella} (T/A)
►
Pentecostalismo e glossolalia
{Gaetano Nunnari} (A)
► URL: http://lucebiblica.altervista.org/Articoli/Glossolalia_problema_MeG.htm
09-07-2007; Aggiornamento: 07-06-2015
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